Se oggi – XXI secolo – vogliamo andare da Rialto a San Marco percorriamo una strada chiamata Mercerie (...).


Se facessimo un viaggio nel tempo e percorressimo quella stessa strada nel 1520 la riconosceremmo senza difficoltà: in cinque secoli è cambiata poco e soprattutto è rimasta identica la sua vocazione commerciale. Se oggi le Mercerie sono una vetrina del made in Italy, allora lo erano del made in Venice che, fatte le proporzioni, era ben più importante: se ora l’Italia è la sesta o settima potenza industriale del mondo, mezzo millennio fa Venezia stava sul podio. Nell’Europa di quel tempo c’erano soltanto tre megalopoli, tre città che superavano i centocinquantamila abitanti: Venezia, per l’appunto, Parigi e Napoli.


Che cosa quindi avremmo potuto trovare nei negozi – che spesso erano anche laboratori e abitazioni – delle Mercerie cinquecentesche? Stoffe, per esempio, ovvero i tessuti splendidamente tinti di rosso per cui Venezia andava famosa, colorati grazie a segrete ricette ereditate dai bizantini. Oppure cuoi–oro, ovvero pannelli di cuoio sbalzati e decorati con foglia d’oro utilizzati per abbellire le pareti interne dei palazzi, lavorati grazie alle tecniche apprese dalla Spagna moresca che a sua volta le aveva ereditate dagli arabi. O ancora armi, tantissime armi: contese e agognate da ricconi e sovrani di mezza Europa, incapaci di andare a combattere se non costosissimamente abbigliati di ferraglia made in Venice. I nomi di un paio di strade lì vicino, Spadaria (da spada) e Frezzaria (da freccia), ancor oggi ci parlano di quell’antica vocazione.


Ma ciò che soprattutto colpiva il visitatore straniero erano i libri: le decine e decine di botteghe librarie che avevano qui una concentrazione ineguagliata altrove in Europa. Abbiamo notizia di autentici tour di shopping, come quello descritto dallo storico Marcantonio Sabellico (che sarà beneficiario della prima forma conosciuta di copyright) quando due amici si muovono dal fontego dei Tedeschi, ai piedi del ponte di Rialto, diretti a San Marco e non riescono ad arrivare alla meta, divorati dalla curiosità di leggere le liste di libri affisse fuori delle botteghe (fontego in veneziano voleva dire magazzino; il fontego dei Tedeschi – tutt’ora esistente, così come quello dei Turchi – 
era il luogo dove alloggiavano, tenevano le proprie merci e gestivano gli uffici i mercanti, prevalentemente di lingua tedesca, provenienti dall’Europa centrale).


Nemmeno la Germania di Gutenberg, dove la stampa a caratteri mobili era stata inventata più o meno sessantacinque anni prima, tra il 1452 e il 1455, era in grado di intaccare il primato: a Venezia, nella prima parte del Cinquecento, si stampava la metà di tutti i libri pubblicati in Europa. E il primato non era solo quantitativo, ma anche qualitativo, «per la ricchezza e la bellezza dei volumi che i suoi stampatori producevano». 

Senza l’editoria veneziana di quel secolo non esisterebbero il libro come noi lo conosciamo e nemmeno la lingua italiana come la parliamo oggi. L’italiano è sì basato sull’opera dei toscani Dante e Petrarca, ma sono le edizioni veneziane curate dall’umanista Pietro Bembo e stampate dal re degli editori, Aldo Manuzio (di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo), a imporne il successo che dura ancora ai nostri giorni.


Entriamo in una di quelle botteghe. Siamo in grado di farci un’idea grazie alla descrizione che ne dà Angela Nuovo nella sua opera sul commercio librario (Il commercio librario nell’Italia del Rinascimento). Parte della mercanzia è esposta all’esterno: sopra un paio di banchi si possono ammirare i frontespizi (e solo quelli, per scoraggiare i furti) di classici latini e greci (con una prevalenza dei primi), di testi religiosi (Bibbie o commentarii); e poi stampe, vedute di città vicine e non, raffigurazioni di popoli che difficilmente nel corso della vita si sarebbero potuti incontrare; libri in lingue strane e remote, ma parlate da parecchi visitatori di una città il cui melting pot può essere paragonato soltanto a quello dell’odierna New York. 

Ecco opere in armeno, una Bibbia boema, un testo in glagolitico (l’alfabeto dell’antica Croazia medievale), un altro in cirillico e, naturalmente, visto che il ghetto di Venezia, istituito nel 1516, è il primo della storia, numerosi volumi in ebraico. Molti negozi sono anche «officine», ovvero stamperie, per cui la maggior parte dei libri in vendita costituiscono la produzione del tipografo–editore. Consultabile sul banco esterno, o appeso allo stipite della porta, è quasi sempre presente il catalogo dei libri pubblicati e in vendita, in genere tre o quattro fogli piegati a metà uno dentro l’altro. Altri negozi di libri sono invece cartolerie, ovvero botteghe dove si vendevano le opere manoscritte e l’attrezzatura necessaria per realizzarle: fogli di carta, boccette d’inchiostro, penne. Nell’era della stampa i cartolai hanno semplicemente sostituito con i libri usciti dai torchi del tipografo quelli scritti sul banco dell’amanuense.

 

Alessandro Marzo Magno, L'alba dei libri

 

  • Mercerie: la via delle merci, delle mercanzie
  • vocazione: destinazione
  • millennio: un millennio corrisponde a mille anni
  • stoffe: tessuti
  • bizantini: da  Bisanzio, antichissima città del Mar Nero (l’odierna Istanbul), sede del governo imperiale dell’Impero d’Oriente (dal 4° al 15° secolo d.C)
  • sbalzati: messi in rilievo
  • moresca:  termine con cui si designa lo stile decorativo sviluppatosi tra la seconda metà del sec. 11° e la fine del 15° nell’ambito dell’arte islamica
  • agognate: sognate
  • ineguagliata: senza eguali
  • prevalentemente: principalmente
  • intaccare: raggiungere, toccare
  • imporne: determinarne
  • botteghe: luogo a pianterra destinato alla vendita di merci, negozio
  • mercanzia: merce
  • frontespizi: la copertina di un libro
  • stipite: il bordo di una porta
  • manoscritti: scritti a mano
  • era: epoca, periodo
  • torchi: macchina per stampare
  • amanuense: chi, prima della diffusione della stampa, copiava manoscritti per mestiere